Giovanni Paolo II si è gettato nel suo ministero di Vescovo di Roma con un impeto travolgente e stupefacente: si è fatto presente dappertutto, ad ogni categoria di fedeli e situazione di vita. Ma lo ha fatto su di una base precisa, che egli stesso ha espressamente evidenziato, quella della preghiera. Già il 29 ottobre 1978, visitando il Santuario della Mentorella, diceva infatti: “La preghiera… è… il primo compito e quasi il primo annuncio del Papa, così come è la prima condizione del suo servizio nella Chiesa e nel mondo”. Era sufficiente vedere Karol Wojtyła immerso nella preghiera nei brevi momenti del ringraziamento dopo una Messa celebrata in una parrocchia romana per comprendere come l’unione con Dio fosse per lui il respiro spontaneo dell’anima e il segreto della sua continua donazione.
In questa preghiera la Diocesi di Roma ha avuto sempre un grande spazio: non posso dimenticare le tante occasioni nelle quali egli mi ha assicurato la sua preghiera per questa sua Chiesa, per i suoi Vescovi e sacerdoti, per i seminari, per le vocazioni, per le anime consacrate, per le parrocchie, per gli ammalati, per i giovani e per le famiglie, per tutta l’opera pastorale, per ogni situazione difficile o impegnativa. In particolare vorrei ricordare una sua assai significativa decisione personale: quella di dedicare la chiesa di Santo Spirito in Sassia al culto della Divina Misericordia, come ci è stato proposto attraverso la testimonianza e l’esperienza mistica di Suor Faustina Kowalska. Questa decisione, che si è rivelata straordinariamente efficace e feconda di bene, ci permette di cogliere quella dimensione intima della vita spirituale di Karol Wojtyła che si è espressa anche nell’Enciclica Dives in misericordia e che fa perno sulla dimensione gratuita e misericordiosa dell’amore che Dio Padre ha per noi in Gesù Cristo.
Una componente fondamentale dell’attività pastorale di Giovanni Paolo II a Roma è stata, fin dall’inizio, quella delle visite alle Parrocchie romane. Essa rappresenta un suo grande desiderio personale ed una specie di robusto filo conduttore, che attraversa e caratterizza tutto il suo Episcopato romano, fin da quando, il 3 dicembre 1978, visitò la parrocchia di S. Francesco Saverio alla Garbatella, nella quale aveva prestato servizio negli anni trascorsi a Roma da giovane sacerdote. Così egli ha visitato ben 301 delle 335 parrocchie della Diocesi, fino a quel 17 febbraio 2002 nel quale, già assai sofferente, ha compiuto, con uno sforzo visibile a tutti e tale da suscitare grande e diffusa commozione, la visita alla nuova parrocchia di S. Enrico, nel Settore Nord di Roma fuori dal Raccordo Anulare. Il Papa aveva programmato di visitare 15 parrocchie all’anno e, fin quando le sue condizioni di salute furono buone, riuscì ad attenersi a questo ritmo. In seguito mantenne sempre vivissimo il desiderio di visitare tutte le parrocchie e molte volte mi domandava: “quando visitiamo le parrocchie?”, manifestando delusione di fronte ai rinvii. Perciò, quando non fu più in grado di andare egli stesso nelle parrocchie, desiderò incontrare le comunità parrocchiali in Vaticano ed effettivamente, nel corso di quattro incontri, ne accolse sedici nell’Aula Paolo VI, celebrando con loro l’Eucaristia. Ancora nel gennaio 2005 mi chiese con insistenza di proseguire tali incontri, per accogliere le poche parrocchie rimaste. In quell’occasione Mons. Stanislao cercava di rassicurarlo dicendogli che la visita alle parrocchie veniva fatta tutte le domeniche dal Cardinale Vicario, cioè da me. Il Papa rispose prontamente: “Ma il vescovo di Roma sono io”. Il senso era: non posso delegare ad altri l’obbligo di incontrare le parrocchie, che mi appartiene come vescovo.
Lo stile e la maniera con cui questo Papa visitava le parrocchie fanno toccare con mano come egli intendesse il suo servizio di amore: un servizio rivolto anzitutto alle persone, che cerca e che predilige il rapporto con le persone, attraverso una parola, uno sguardo, una stretta di mano, una carezza. Così egli dava a tutti la sensazione immediata di essere amati, di avere in lui veramente il Vicario di colui che è il Buon Pastore. E la gente capiva bene questo linguaggio. Il modo in cui Giovanni Paolo II era accolto mostra quanto siano profonde le radici che egli ha messo nel cuore dei romani: seguendolo molto da vicino in mezzo alla folla, come facevo sempre in qualità di suo Vicario, vedevo quante persone si commuovevano per il solo fatto di essergli accanto e di poter avere un momento di contatto con lui. Erano reazioni spontanee e genuine, che parlano più di molti libri.
Ciascuna visita alle Parrocchie aveva un cammino di preparazione, nel quale Giovanni Paolo II si coinvolgeva personalmente, incontrando a pranzo o a cena il parroco con gli eventuali viceparroci, oltre che il Vescovo del Settore e il Cardinale Vicario. Erano le occasioni per un esame concreto della situazione delle singole comunità parrocchiali, ma anche, e direi soprattutto, erano momenti di grande familiarità e semplicità, nei quali il Vescovo conosceva i suoi preti, simpatizzava con loro e si faceva conoscere da loro, al di là di qualsiasi ufficialità: ho constatato moltissime volte quanto questi incontri rimanessero incisi nell’animo dei sacerdoti di Roma.
Il rapporto di Giovanni Paolo II con i suoi preti è stato scandito anche da grandi appuntamenti comuni, in primo luogo l’udienza al clero romano il primo giovedì di quaresima, quando il Papa anzitutto e lungamente ascoltava, per poi rispondere in una chiave molto cordiale, fraterna e immancabilmente anche scherzosa. Nella medesima prospettiva, un posto particolare nel suo animo è stato riservato al Seminario Romano. L’appuntamento con tutta la comunità del Seminario, la sera del sabato precedente l’inizio della quaresima, festa della Madonna della Fiducia, è stato per lui, prima che un dovere pastorale, un momento di gioia e di comunione spirituale. Un incontro al quale questo Papa non mancava mai era anche quello del 2 febbraio, festa della Presentazione del Signore, nel quale celebrava in S. Pietro la Messa per i religiosi e le religiose di Roma.
E’ ben noto l’amore di predilezione che questo Papa ha avuto per i giovani. A Roma lo manifestava in particolare nella Messa per gli universitari, che egli stesso ha voluto ogni anno, fin dal 1979, nei giorni precedenti il Natale e alla quale si è sempre mantenuto fedele, perfino nel dicembre 2004. Questa Messa è diventata progressivamente un grande appuntamento non solo per gli studenti ma per i docenti e le autorità accademiche, allargandosi inoltre dalle Università romane alle rappresentanze di molte Università italiane. Sempre nell’ambito della sua speciale attenzione al mondo universitario, Giovanni Paolo II ha visitato le Università romane, dando così un grande contributo personale alla crescita della pastorale universitaria in Roma, che oggi costituisce un punto di forza della presenza della Chiesa nella vita e nella cultura della città.
L’espressione più celebre dell’amore di Giovanni Paolo II per i giovani sono indubbiamente le Giornate Mondiali della Gioventù. Roma ha ospitato, negli anni 1984 e 1985, gli inizi di questa grande avventura, e poi, nell’agosto dell’Anno Santo del 2000, ha vissuto l’esperienza indimenticabile culminata nell’incontro di quasi due milioni di giovani con il Papa a Tor Vergata. Dalle Giornate Mondiali della Gioventù ha preso nuovo impulso tutta la pastorale giovanile romana: così, a partire dal 1992, Giovanni Paolo II ha cominciato a dedicare uno specifico incontro ai giovani di Roma, il giovedì precedente la domenica delle Palme, nel quale veniva alla luce il loro rapporto peculiare con il loro Vescovo.
Fin dalla visita all’Ospedale Bambin Gesù, il 7 gennaio 1979, questo Papa ha mostrato ugualmente una profonda e amorosa attenzione al mondo della malattia e della sofferenza. Ogni anno, finché le forze glielo hanno consentito, visitava almeno due ospedali di Roma, soffermandosi al capezzale di un gran numero di ricoverati. Assai toccante e pastoralmente feconda era poi la Messa annuale con gli ammalati dell’11 febbraio, memoria della Madonna di Lourdes, nella Basilica di S. Pietro: soprattutto alla fine, quando egli passava a salutare personalmente uno ad uno centinaia di uomini, donne e bambini portati in S. Pietro in carrozzella, si vedeva come il suo cuore fosse intimamente vicino ai sofferenti e quanto sul serio egli confidasse nella forza salvifica del dolore.
L’amore del Papa per la città e la partecipazione alle sue vicende anche terrene si è reso particolarmente visibile quando, il 15 gennaio 1998, Giovanni Paolo II si è recato in visita in Campidoglio. In quell’occasione non ha esitato ad affermare: “il Signore ti ha affidato, Roma, il compito di essere nel mondo ‘prima inter urbes’, faro di civiltà e di fede. Sii all’altezza del tuo glorioso passato, del Vangelo che ti è stato annunciato, dei Martiri e dei Santi che hanno fatto grande il tuo nome”. Ed ha concluso ricordando un gioco di parole che sintetizza il suo approccio a questa straordinaria città: letta in maniera inversa, la parola Roma diventa infatti “Amor”. Era questa, per lui, la missione di Roma nel mondo.
Nell’Episcopato romano di Giovanni Paolo II sono di fondamentale importanza due principali iniziative pastorali che lo hanno caratterizzato: il Sinodo diocesano e la Missione cittadina. Annunciato dal Papa nella Veglia di Pentecoste, il 17 maggio 1986, il secondo Sinodo diocesano di Roma, incentrato sui temi della comunione e della missione, è stato una grande scuola pratica dell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II. Il Sinodo ha costituito una tappa fondamentale del lungo cammino di acquisizione di una più precisa coscienza diocesana che la Chiesa di Roma aveva avviato con i Pontificati di Giovanni XXIII e Paolo VI e attraverso l’opera instancabile del Cardinale Ugo Poletti.
I frutti del cammino sinodale hanno trovato la loro maggiore espressione nella Missione cittadina. L’8 dicembre 1995, Giovanni Paolo II, in Piazza di Spagna davanti alla statua dell’Immacolata, chiamava la Chiesa di Roma a “una grande missione cittadina, volta a predisporre gli animi degli abitanti ad accogliere la grazia dell’Anno Santo e a ritrovare nella fede in Gesù Cristo e nella ricchezza di vita e di cultura che da essa scaturisce le ragioni del compito peculiare affidato alla città eterna nei confronti del mondo intero”. Il Papa dava così concretezza all’indicazione da lui spesso ripetuta: “La Chiesa di Roma deve cercare se stessa un po’ fuori di se stessa”, deve cercare l’uomo là dove questi si trova, là dove è in questione la sua verità, dignità e libertà (vedi in particolare il discorso al clero romano del 18 febbraio 1988).
La Missione cittadina si è sviluppata con sorprendente vigore e concretezza, facendo perno sulla sua finalità essenziale di annunciare e testimoniare Cristo a tutta la gente di Roma e in ogni ambito e situazione di vita della città. Le sue basi teologiche ed ecclesiologiche sono tanto semplici quanto solide e profonde: la Chiesa come popolo di Dio e la Chiesa per sua natura missionaria. Perciò il Papa ha voluto la Missione cittadina non semplicemente come “missione al popolo”, ma piuttosto come “popolo di Dio in missione”. In concreto, è il popolo delle parrocchie, delle associazioni e dei movimenti, sono i preti e i diaconi di Roma, le comunità religiose e di vita consacrata, che si sono fatti coraggiosamente missionari. Il primo periodo è stato dedicato soprattutto alla preparazione, ma già nella quaresima del 1997 è stata portata in dono ad ogni famiglia, con gesto carico di significato, una copia del Vangelo di Marco, introdotta da una lettera del Santo Padre. Nei primi mesi del 1998 la Missione è stata poi compiuta capillarmente visitando le case e le famiglie: il Papa stesso si è recato presso una famiglia della Parrocchia del Sacro Cuore di Gesù in Prati, mostrandosi così concretamente quale primo missionario della sua città.
La Missione cittadina si è quindi rivolta, nell’anno pastorale 1998-99, agli ambienti di lavoro e di vita, aprendo una pagina nuova e senza dubbio non facile nell’impegno apostolico della Diocesi. Sono stati raggiunti così un gran numero di luoghi di lavoro – dalle fabbriche ai Ministeri alle agenzie di comunicazione alle banche –, di scuole e di Università, di ospedali e di strutture di assistenza: in ciascuno di essi si è cercato di radicare la testimonianza dei missionari in un gruppo di credenti che vivono e lavorano in quell’ambiente e che ne devono essere i primi e permanenti evangelizzatori. Anche in questa tappa il Papa si è coinvolto personalmente, incontrando varie categorie di lavoratori.
La Missione cittadina di Roma è stata conclusa da Giovanni Paolo II, nella veglia di Pentecoste del 22 maggio 1999, con il mandato a proseguire lo sforzo, per consolidare ed estendere i risultati raggiunti e per rendere permanente la caratterizzazione più nettamente missionaria della pastorale diocesana.
Questa Missione è stata concepita e voluta da Giovanni Paolo II come specifica attuazione, per Roma, del grande itinerario pastorale di preparazione al Giubileo del 2000, proposto nella Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente. Così il Grande Giubileo è stato vissuto dalla Diocesi con straordinaria intensità, coinvolgendo in maniera capillare le parrocchie, le comunità religiose, le aggregazioni di fedeli. Specialmente la Giornata Mondiale della Gioventù, con tutta l’opera formativa e organizzativa che l’ha preparata, ha dato un impulso che rimane vivo anche oggi.
La missione è pertanto quasi il testamento pastorale che Giovanni Paolo II ha lasciato alla sua Diocesi: quella per la quale egli ha pregato e si è speso non è infatti una Chiesa ripiegata su se stessa, timida e sfiduciata; è invece una Chiesa che brucia dell’amore di Cristo, per la salvezza di ogni uomo. Per onorare questo testamento confidiamo nella potente intercessione del nostro amato Papa che sta per essere proclamato Santo.
Termino con una breve riflessione sull’avvio del processo diocesano di beatificazione e canonizzazione. Il 13 maggio 2005, nel giorno della Vergine di Fatima, Benedetto XVI, al termine del suo primo discorso al clero romano, annunciava di avere concesso la dispensa dal tempo di cinque anni di attesa dopo la morte del Servo di Dio Karol Wojtyła e che pertanto la causa di beatificazione e canonizzazione poteva iniziare subito. Erano trascorsi soltanto 41 giorni dalla morte di Giovanni Paolo II e ricorreva il 24° anniversario dell’attentato compiuto contro di lui in Piazza San Pietro, il 13 maggio 1981. Così Benedetto XVI accoglieva l’istanza di un grandissimo numero di Cardinali, fattisi voce della corale e ardente supplica innalzata dal popolo di Dio nei giorni indimenticabili della morte e delle esequie di Giovanni Paolo II.
Qual è stato, in concreto, il percorso che ha preparato la decisione di Papa Benedetto? Il Cardinale Jozef Tomko, che aveva raccolto, nelle riunioni precedenti il Conclave, le firme dei Cardinali che chiedevano la dispensa dai cinque anni, le consegnò a me in quanto Cardinale Vicario, chiedendomi di presentarle al nuovo Papa quando fosse stato eletto. Io, che ero tra i firmatari, lo feci nella prima udienza concessami da Benedetto XVI e mi resi subito conto della disposizione favorevole di Papa Benedetto, anche se egli, come è logico, mi aveva detto che doveva ponderare questa decisione e pregarci sopra. Quelli furono anche per me giorni di speciale preghiera perché la supplica fosse accolta: già allora, infatti, anzi, da molto prima, quando Giovanni Paolo II era ancora nel vigore delle sue forze, ero intimamente convinto che il Signore mi aveva fatto la grazia di poter essere vicino a un Santo. La gioia che ho provato, o meglio, che abbiamo tutti provato quel 13 maggio, quando Papa Benedetto annunciò la dispensa, rivive ora, ancora più intensa, e avrà il suo compimento il 27 aprile in Piazza San Pietro, dove ringrazieremo Dio per il dono grandissimo che ha fatto alla Polonia e all’Italia, a Roma e al mondo nella persona di Karol Wojtyła-Giovanni Paolo II.