In Italia accade che a tratti ci si dimentichi della parola “mafia”, affannati come siamo a inseguire altre parole meno impegnative e pericolose, quasi annoiati di dover parlare sempre delle stesse cose. E’ davvero singolare che il discorso pubblico si sia “annoiato” di chiamare a raccolta le coscienze per ricordar loro che la lotta alle organizzazioni mafiose non può essere rimossa dall’agenda delle priorità, perché senza una pulizia profonda e radicale di questo fenomeno non ci sarà ripresa economica e un vero rinnovamento etico. Mafia è una parola che lo Stato e la Chiesa non hanno il diritto di dimenticare né di sottovalutare.

E vengo al tema di oggi, riprendendo in parte il discorso che ho fatto due settimane fa a Viareggio, dove si è parlato degli obiettivi che una seria politica anticrimine deve proporre per combattere la mafia, aggredirne i patrimoni e restituirli alla società cui sono stati sottratti.

Prendo le mosse da un articolo pubblicato il 12 marzo scorso dal “Corriere della Sera” a firma di Virginio Rognoni, ex Ministro degli Interni e già vicepresidente del CSM. Rognoni segnalava come, dopo mesi di stallo provocati da uno specioso dibattito sull’affidamento della presidenza della Commissione bicamerale antimafia e quindi sulla sua operatività - Bindi sì, Bindi no: segno palese di una sottovalutazione politica del fenomeno mafioso e della sua capacità di penetrazione nell’economia, e pessimo segnale, ancora più palese, di assoluta irresponsabilità politica - la pubblica opinione era venuta a conoscenza di due Commissioni di studio, una voluta a suo tempo dal governo Letta e presieduta dal consigliere di Stato Roberto Garofoli e l’altra istituita dall’ex ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri e presieduta dal professor Giovanni Fiandaca che stavano lavorando sugli ultimi dati relativi alla quantità e al valore dei patrimoni mafiosi, provvisoriamente o definitivamente in mano allo Stato. Le due Commissioni – precisava Rognoni - erano impegnate a spiegare il modo in cui questa “ricchezza” viene amministrata dallo Stato, in che modo e in che tempi viene conservata, e come e quando viene impiegata ai fini sociali secondo la normativa in vigore.

Qualche giorno dopo, a richiamare l’attenzione sugli stessi temi è stata l’associazione “Libera” fondata e presieduta da Don Luigi Ciotti, con una conferenza nazionale svoltasi a Latina dal titolo estremamente eloquente: “Le mafie restituiscono il maltolto”, in nome di quella “economia della legalità“ di cui Libera ed altre sigle si sono fatte promotrici. Pressoché nello stesso lasso di tempo lo scrittore Roberto Saviano, dalle colonne diRepubblica”, lanciava un appello al nuovo governo perché “desse centralità al contrasto all’economia criminale”, spiegando che i capitali mafiosi, così sciaguratamente cospicui, “sono il vero tesoro che dobbiamo riprenderci”. Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi gli ha risposto a stretto giro di posta, pubblicando qualche giorno dopo sullo stesso quotidiano una lettera in cui espone un vero e proprio piano di aggressione alla “Mafia Spa, presente in ogni comparto economico e finanziario del Paese, un’economia che colpisce imprese e società al collasso…”.

Non sono pochi i problemi che in questa rapida sequenza di avvenimenti s’intrecciano e si sovrappongono, l’uno strettamente legato all’altro in una trama quasi sotterranea. Vi si colgono (o meglio: vi si seguitano a cogliere) ombre, omissioni, criticità, disfunzioni e inadeguatezze rispetto al progetto elaborato negli anni 1999-2001 dalla Commissione ministeriale presieduta dal professor Fiandaca, cui si devono i più significativi e innovativi interventi di riforma per la riorganizzazione e il riordino del tradizionale assetto della disciplina di contrasto della criminalità organizzata.

Tra le pieghe degli eventi or ora riferiti fa capolino l’assillante auspicio di una giustizia più veloce, che è premessa indispensabile, soprattutto nel settore degli effetti delle misure di prevenzione patrimoniali, per accorciare i tempi tra il sequestro e la confisca dei beni e il loro utilizzo (o riutilizzo) sociale, la cui forte distanza temporale è tra le cause del malfunzionamento dell’Agenzia che li deve amministrare [basti pensare che nel 90% dei casi le aziende sequestrate (poco più di 1.700) falliscono al momento della confisca, il che fa passare il messaggio che le mafie danno lavoro mentre lo Stato, che procede alle confische, non è in grado di garantirlo]. Ma nel discorso si inserisce anche la proposta di introdurre nuovi sistemi di controllo per individuare la provenienza dei capitali illeciti, vuoi per salvaguardare la vita e il futuro delle aziende sottoposte a confisca e di quelle di cui sono spesso titolari anche le vittime di reati particolarmente odiosi come il racket e l’usura, vuoi per neutralizzare il pericolo che il bene confiscato, nel caso residuale della messa in vendita sul mercato, possa ritornare in mano alla mafia attraverso prestanomi di comodo.

Nel corso della relazione svolta a Viareggio mi è capitato di toccare, sia pure a volo d’uccello, quelli che in questo incontro vengono indicati come “i dati inesplorati (o non ancora completamente esplorati, mi permetto di precisare) della criminalità organizzata”.

Ho segnalato, ad esempio, che le più recenti inchieste antimafia seguite a Roma assomiglino a una sorta di guida gastronomica: un lungo elenco di ristoranti, pizzerie bar e tavole calde di ogni livello e di ogni quartiere confiscati dalla Guardia di Finanza. Metà delle 160 aziende confiscate nel Lazio e nel centro storico di Roma sono bar e ristoranti affidati a imprenditori del settore, cioè a professionisti che curano nei particolari la gestione e l’arredo dei locali per farne posti conosciuti e frequentati. Le indagini rivelano in particolare il meccanismo della “compartecipazione” in società pulite. Le attività imprenditoriali prese di mira – ha spiegato il Procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone – sono un modo per entrare in contatto con i cosiddetti colletti bianchi, amministrazioni locali, imprenditori e banche. Nella capitale – fui proprio io a segnalarlo, inaugurando l’anno giudiziario 2013 nell’allora veste di Presidente della Corte di appello di Roma – non c’è una presenza monopolistica dell’attività illecita di stampo mafioso ma coesistono fenomeni di tipo diverso. Abbiamo proiezioni di Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra che interagiscono con gruppi malavitosi locali e operano con modalità che possiamo qualificare come mafiose.

Un ruolo importante ha anche la liberalizzazione del gioco d’azzardo, che non ha tolto risorse alla criminalità organizzata, la cui infiltrazione nel settore è anzi aumentata, come si legge nella Relazione della Direzione Nazionale Antimafia del gennaio scorso. La criminalità organizzata sta acquisendo quote sostanziose del mercato del gioco, evidenziando un legame sempre più intenso e avanzato con l’imprenditoria. Le organizzazioni criminali esprimono, o si alleano, con soggetti particolarmente dotati sotto il profilo manageriale, capaci di gestire meccanismi aziendali complessi, di sovrintendere a più società che offrono tipologie diverse di gioco e sono in grado di gestire una serie di “punti gioco”, dislocati in varie parti del territorio nazionale.

Va fatto richiamo anche agli interessi delle mafie non solo nostrane ma anche straniere sugli esercizi di “compro-oro”, che, a differenza delle banche e di altri intermediari finanziari, non sono sottoposti all’obbligo di un’adeguata verifica della clientela e all’iscrizione dei dati nell’archivio unico informatico. Una pacchia, insomma, che è alla base della filiera dei traffici di oro di provenienza illecita.

Leggendo le cronache di questi ultimi giorni non posso poi fare a meno di esprimere la mia sorpresa, apprendendo che, a più di un anno di distanza dall’entrata in vigore della legge Severino, solo 38 prefetture su 105 hanno provveduto a stilare gli elenchi delle imprese per gli appalti puliti. E’ impressionante che, nei territori a maggior rischio di infiltrazione mafiosa nelle sue tradizionali declinazioni (mafia, camorra ‘ndrangheta) le white list manchino quasi del tutto o contengano un numero molto al di sotto delle ditte effettivamente coinvolte nei cantieri della ricostruzione. La normativa sulle white list è chiaramente in affanno. Alla prevedibilissima impennata di lavoro non è corrisposto alcun rinforzo agli uffici. I meccanismi di controllo sono minuziosi, lenti e complessi, non sempre adeguatamente informatizzati, gestiti da personale numericamente insufficiente e, peraltro, frustrato e demotivato dalle solite promesse non mantenute: il mancato pagamento degli straordinari, le solite “ingessature” del pubblico impiego.

L’iscrizione delle imprese è su base volontaria, ma è chiaro che le white list dovrebbero rappresentare un vantaggio, un bollettino di qualità capace di influire positivamente sul piano materiale (rendendo più facile, ad esempio, l’accesso al credito e ai finanziamenti pubblici) e su quello immateriale, favorendo la reputazione come un valore di impresa.

La nuova normativa, oggetto del disegno di legge che il Governo si appresta a varare, dovrebbe almeno in parte contribuire a risolvere questi problemi.

E la ragione di questo ottimismo è presto detta.

Si introduce, finalmente, dopo anni di false partenze e di avvisi ignorati provenienti da autorità internazionali (come il Fondo Monetario Internazionale e la Commissione Europea) e da istituzioni nazionali (come la Banca d’Italia),  il reato di autoriciclaggio compiuto “per finalità imprenditoriali”che punisce, eliminando la “clausola di riserva” contenuta nell’attuale formulazione dell’art. 648-bis del codice penale, anche chi trasferisce o sostituisce i proventi dei delitti che egli stesso ha commesso o concorso a commettere.

E’ difficile giustificare il ritardo che ha pesato su questo fronte – il reato di antiriciclaggio esiste da tempo perfino nella legislazione vaticana - e che appare emblematico di una curiosa legislazione che obbliga i dipendenti degli istituti bancari e finanziari a segnalare operazioni sospette e di una magistratura che è arrivata a procedere nei confronti di 114 sportellisti per omessa segnalazione delle stesse (salvo poi, alla fine, ad archiviare il tutto in nome del buon senso) – e il risvolto paradossale della non punibilità di chi occulta in proprio i proventi di un reato, dedicandosi in prima persona a quell’operazione di “lavaggio e pulitura” del denaro sporco che consente di nasconderne l’origine e di rendere invisibili le tracce della sua reale provenienza.

Intendiamoci. Quello che potrà cambiare dopo il varo di questo nuovo reato non sta tanto nelle politiche di prevenzione della criminalità organizzata – dove il “fai da te” è rarissimo – ma nel campo fiscale. E’ qui, del resto, che il Governo si attende il risultato di cassa più significativo, considerato che la minaccia della nuova fattispecie potrebbe incentivare l’emersione dei capitali detenuti in nero, sia all’estero che in Italia.

Il risvolto più rilevante del pacchetto del Governo riguarda però l’Agenzia dei beni confiscati, di cui si riconosce che, così com’è strutturata, è in affanno e ha bisogno di un colpo d’ala che le consenta di liberarsi da una crescente ed elefantiaca burocratizzazione e di dare aiuto ai magistrati per riutilizzare immediatamente e utilmente per finalità sociali i beni (appartamenti, terreni, aziende) sottratti alla disponibilità economica della criminalità organizzata. Il disegno di legge individua a Roma l’unica sede dell’organizzazione (che oggi ha invece uffici dislocati anche a Milano, Reggio Calabria e Palermo), raddoppia fino a 60 unità il personale in pianta organica e provvede a un profondo riassetto dei suoi organi.

Per il resto s’impone un cambio di marcia per quanto concerne l’impianto normativo relativo alle misure di prevenzione patrimoniale e il ruolo della “confisca”, che è  ormai un concetto di genere, perché la vasta gamma di figure create dal legislatore ci rilascia un’istantanea dalle mille sfumature, con una varietà impensabile di finalità: sanzionatorie, restitutorie, preventive.

Volano indiscusso di questo tumultuoso processo resta infatti la confisca di prevenzione che, introdotta dalla legge n. 646 del 1982, ha finito per perdere col tempo i suoi connotati originari per trasformarsi in una vera e propria sanzione, considerato che può essere irrogata anche prescindendo dalla verifica della pericolosità sociale del proposto (come ha statuito la legge 17 luglio 2009, n. 94).

Non è facile creare nuovi strumenti giuridici capaci di separare la pericolosità di un bene (azienda o immobile che sia) dalla supposta pericolosità sociale del soggetto che ne ha la disponibilità e che i giudici hanno in qualche caso mandato assolto dall’imputazione ascrittagli e altre volte non lo hanno nemmeno incriminato.

Agli illustri relatori l’arduo compito di dare una risposta.